domenica 28 marzo 2010

LA SETTIMANA ERA PARTICOLARE

Infatti si trattava di quella Pasquale - nel 1952 - e la filodrammatica del mio rione, della quale facevo parte, era stata invitata dalla vicina parrocchia a rappresentare nel proprio teatro la tragedia Christus – un prologo e otto quadri di P. Porfirio Colanicchia, con ventuno personaggi uno dei quali, l’apostolo Pietro il pescatore, ero io a doverlo interpretare. Non importava che fossi molto giovane - appena ventunenne – mi avrebbero truccato accuratamente. Il copione di quel lavoro teatrale c’era stato consegnato appena una quindicina di giorni prima e noi tutti eravamo impegnati a cercare di imparare ogni battuta a memoria, anche se, al momento dell’andata in scena, avremmo avuto l’aiuto di un suggeritore. C’era, però, una discreta parte di noi che non riusciva a fare questa operazione e quindi il tutto procedeva troppo a rilento. Il regista, uno di noi ma pratico di teatro, era piuttosto preoccupato per l’andamento delle cose. Tra l’altro aveva ricevuto una richiesta da parte della direzione di un ospedale pediatrico religioso, quella in pratica di andare a rappresentare almeno la prova generale di quel lavoro nel loro piccolo teatro riservato ad un pubblico composto di suore, personale medico e qualche genitore dei piccoli ricoverati. Il regista ci affermò che non gli era stato possibile dire di no, giacché in quell’ospedale c’erano ricoverati i suoi due figli piccoli. Sinceramente eravamo tutti nel panico più completo: nessuno di noi sapeva la propria parte a memoria e inoltre c’erano ancora certi meccanismi da mettere completamente a fuoco. La prova generale era stata fissata lì all’ospedale per il venerdì santo mentre lo spettacolo vero e proprio sarebbe andato in scena il giorno successivo nel teatro parrocchiale del rione. Dopo aver discusso a lungo prendemmo una decisione. Ci saremmo recati ugualmente al piccolo teatro di quell’ospedale, ma lì giunti il regista avrebbe comunicato alla suore responsabili che a causa di un’improvvisa indisposizione dei due personaggi principali quel lavoro non si sarebbe potuto rappresentare. Una menzogna delle più spudorate. Avremmo in ogni caso portato in scena uno spettacolo d’arte varia – cosa che facevamo abitualmente e che conoscevamo a menadito – e quindi saremmo andati in scena ugualmente visto che le suore avevano già tutto organizzato per questa rappresentazione. Noi da parte nostra concordammo quali sketch portare in scena, quali e quanti di noi avrebbero partecipato, con quali incarichi. Della nostra compagnia facevano parte anche una giovanissima cantante poi diventata soubrettina con Macario, un ragazzo che suonava benissimo la fisarmonica e un giovane operaio milanese amante dell’arte circense che si era fornito di un completo costume da clown. Era bravissimo quando poteva esibirsi nel suo numero preferito. Felice, questo il suo nome, s’era creato un piccolo aggeggio: aveva inserito nella palletta rossa di plastica che i clown si mettono in punta al naso, una minuscola lampadina collegata ad un filo elettrico, ben nascosto dal cerone, che si dipartiva dal naso, passava dietro la schiena e arrivava sulla pancia attaccato ad un pulsante. Bastava che lui lo premesse col gomito e la lampadina s’accendeva illuminandogli il naso. Unimmo anche loro nella spedizione verso quell’avventura. Arrivò il venerdì e noi, giunti sul posto un’ora prima di quella fissata per lo spettacolo, fummo accolti da due suore facenti funzioni di direttrici, ma soprattutto spalancammo tanto d’occhi nel vedere in una stanza adiacente il palcoscenico del teatro una tavola imbandita di ogni ben di Dio. Panini imbottiti, pizzette, bevande e dolci d’ogni genere e altro ancora. Il nostro imbarazzo crebbe a dismisura. Il regista iniziò subito a recitare la sua commedia e, con fare contrito, spiegò alle suore il motivo per cui non potevamo mettere in scena la tragedia promessa. Le due suore, dapprima perplesse poi convintesi piuttosto a malincuore ci assicurarono che potevamo rappresentare quello che credevamo dato che ormai il tutto era stato predisposto. Peraltro stavano già arrivando i primi spettatori i quali prima di entrare in sala dovevano lasciare all’ingresso un’offerta – noi non ne sapevamo niente – per contribuire alle spese sostenute per il pantagruelico rinfresco che c’era offerto.
Scoccata l’ora d’inizio dello spettacolo a me cominciarono a tremare le gambe come pure agli altri. Però forse a me più di loro giacché dovevo fare il presentatore per ogni singolo quadro, siparietto o intermezzo musicale. M’infusi coraggio, presi il microfono in mano e andai in scena. Un bell’applauso d’incoraggiamento mi accolse ed allora io con una notevole faccia tosta accennai brevemente al cambiamento di programma e presentai il primo numero. Feci persino lo spiritoso con qualche lieve battutina. Mi guadagnai però il consenso degli spettatori così come l’ottennero tutti i partecipanti allo spettacolo, persino con qualche richiesta di bis. Terminammo dopo circa due ore. Ricevemmo parecchi applausi e l’unanime consenso delle suore due delle quali, le direttrici, nell’invitarci al rinfresco ci chiesero se potevamo tornare ancora qualche altra volta.
Rispondemmo di sì visto che il tutto era finito …a tarallucci e vino.
Infatti ritornammo sul luogo del delitto altre due volte.

mercoledì 24 marzo 2010

AHO' MA L'IMPEPATA DE COZZE...

Qualche volta capita di ascoltare, non volendo, dialoghi d'ogni genere tra due o più persone in occasioni e nei luoghi più disparati: al bar, al cinema, a teatro, in pizzeria, al ristorante, al supermercato, passeggiando, oppure sui mezzi di trasporto pubblici. Insomma ovunque.
Giusto oggi, dovendomi recare piuttosto lontano da casa, decido di salire su un autobus al capolinea per stare comodamente seduto considerata la lunghezza del tragitto.
L'autobus è completamente vuoto: come mai?
Lo sciopero quasi quotidiano dei trasporti?
Per precauzione cerco d'incrociare l'autista per chiedere se il servizio funziona o meno e l'autista stesso – nel vicino bar a prendersi un caffé - mi assicura che da lì a pochi minuti la corsa sarebbe regolarmente partita.
Bene. Con la possibilità di scelta che ho mi siedo in un posto a metà del bus e aspetto.
Appena qualche attimo ed ecco salire due uomini di una certa età intorno ai sessanta credo, piuttosto robusti o meglio sovrappeso, capelli grigi e andatura sicura, quasi spavalda. Si siedono anche loro proprio dietro di me e iniziano a chiacchierare mentre l'autista mette in moto e parte. Siamo soltanto in quattro: tre passeggeri e l'autista.
Non ho con me cose da leggere, quotidiani, settimanali o libri per cui rivolgo lo sguardo verso i finestrini e vedere quello che avviene in strada.
Gli altri due passeggeri seduti dietro di me parlano tra di loro, prima a bassa voce poi, senza neppure farci caso, alzano il tono e non posso fare a meno di ascoltare quello che stanno dicendo
=Romole' ma nun m'hai riccontato gnente de quer pranzo de domenica passata
=Statte zitto Micheli' nun ce vojo manco pensa'. So' passati quattro giorni e ancora devo da diggeri'...
=E che te sarai magnato mai?
=O voi sape' Romole' ?
=Te credo, sennò che amichi semo
= E vabbe', mo te lo dico. Anzi 'o sai che faccio? Faccio come li gamberetti, a marcia indietro, ner senso che, pe fatte gusta' tutto, parto dar dorce, anzi da li dorci fino ai primi. Manco a dillo sur tavolo un vino cannellino de Frascati a fiumi...
=Ce lo so, quer vino è veramente gajardo...
=Esatto. Allora come t'ho detto te ricconto dalla fine: tre dorci..
=Come tre? Uno nun bastava?
=Allora fai finta de nun capi'...Se trattava d'un pranzo vero dove devi da magna' tre cose d'ogni cosa...d'ogni portata voglio di'... Mò hai capito?
=Vabbe' vabbe', daje..
=I dorci: un maritozzo co la panna, un bigné co la crema e na fetta de tiramesù...
=Boniii!
=Pe' contorno: du carciofi alla romana, 'na forchettata de cicoria in padella co' ajo, ojo e peperoncino e 'na cucchiajata de facioli co' le cotiche...
=Questi me piaciono un sacco...
=Pe' seconno: abbacchio a scottadito, gallinaccio co' peperoni e saltimbocca alla romana...
=Er gallinaccio nun me sconfinfera...
=Pe' primo: rigatoni alla carbonara, spaghetti ajo, ojo peperoncino e spaghetti cacio e pepe
=Tutto qua?
= Veramente ...
Una frenata brusca, l'autobus si blocca, l'autista sporge appena la testa dal gabbiotto, si volta e, rivolto verso Romoletto - certamente per sfotterlo - gli dice
=AHO' MA L'IMPEPATA DE COZZE com'é che l'hai lasciata?

domenica 21 marzo 2010

L'INDIZIO

Qualcuno ha scritto: “Quando si verificano tre coincidenze esse costituiscono un indizio.”
Vado per ordine.
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1^ coincidenza: Ho circa diciotto anni, in pratica oltre sessanta anni or sono, e lavoro come usciere-fattorino presso un importante ufficio, non statale, al terzo piano di un antico palazzo nel centro storico di Roma – inizio di Corso Vittorio Emanuele, dopo Piazza del Gesù ed è mattino, intorno alle 10:00.
Suonano alla porta, apro, è il portalettere il quale, appena mi vede, meravigliato, mi fa
=e tu che ci fai qua?
=come che ci faccio, lavoro
=ma che lavori in due uffici?
=ma che stai dicendo?
=ma non lavori in Via Tomacelli?
=io non ci lavoro né ci ho mai lavorato
=sembra impossibile. Lì c’è un ragazzo come te che è la tua copia sputata
=be’, un giorno ci andrò perché voglio proprio vedere se mi somiglia come dici tu.
Qualche mese dopo sono andato in quell'ufficio indicatomi dal portalettere, ma nessuna traccia della mia copia.
Questa prima coincidenza mi è tornata in mente quando si è verificata la
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2^ coincidenza: Due giorni fa mi arriva un messaggio da mia nipote di circa ventidue anni nel quale scrive - cito testualmente: “Nonno oggi in metro ho visto un tuo sosia. Uguale. Te lo giuro, non fosse stato per la pipa che aveva in bocca e il naso più ricurvo e appuntito, questo tizio era identico a te. Anche l’espressione, tutto! Sono rimasta a fissarlo per tutto il viaggio, più lo guardavo e più mi convincevo della somiglianza tanto che, ad un certo punto ho cominciato a pensare che fossi proprio tu! E infatti mi sa che il sosia si è accorto dei miei sguardi e alla fine mi sembrava un po’ seccato. Mah! Non è che per caso hai una doppia vita segreta e misteriosa?”.
Be’, d’accordo, sono vecchio, ma non credo poi così tanto da avere eventualmente partecipato ai moti carbonari (robetta del 1830-1831) o a qualsiasi altra setta segreta.
A prescindere poi dal fatto che da oltre undici anni non fumo né pipa, né sigaro e neppure sigarette.
Mi contento di respirare un bel po’ di smog.
Questa seconda coincidenza mi ha un po’ allarmato ma ecco in aggiunta la
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3^ coincidenza: Letto il messaggio di mia nipote ho un colloquio con un mio vecchio amico con il quale mi vedo spesso.
Lui mi dice: “Questa mattina quando sono andato in un ufficio per consegnare dei documenti che mi erano stati richiesti, mentre ero seduto in una stanza davanti a un impiegato lui riceve una telefonata e, parlando con il suo interlocutore aggiunge queste parole
=no, no stai tranquillo il signor - dice il cognome - è già stato avvertito,verrà domattina.
Al termine di quella telefonata il mio amico con molto garbo gli chiede:
=scusi, involontariamente ho ascoltato quello che diceva al telefono, ma forse stava parlando del signor - e gli dice il mio nome e cognome - che abita vicino a me in Via Bixio e lo conosco molto bene?
L’impiegato gli fa:
=nome e cognome sono quelli, guarda un po’ che combinazione ma questo signore abita al TRIONFALE!”.
La terza coincidenza mi ha sconvolto specialmente per il nome di quel quartiere di Roma che per me ha un valore del tutto particolare e mi ricorda molte cose.
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Devo investigare al più presto servendomi di questo primo INDIZIO.

giovedì 18 marzo 2010

UN GIORNO, UN'ORA, AD UN SEMAFORO DI UN CROCEVIA

Benché fosse inverno c'era uno spicchio di sole, per fortuna.
Era domenica e l'attesa di un bus alla fermata non mi preoccupava più di tanto dato che non avevo alcun appuntamento e neppure impegni urgenti.
Cercai di ingannare l'attesa dando un'occhiata in giro, ma dopo appena qualche minuto mi si avvicnò una giovane coppia, lui e lei intorno ai trent'anni, credo:
= Scusi, per favore, ci può indicare la strada da fare per andare a Piazza...
= Ragazzo mio quella piazza lì è abbastanza lontana, siete in macchina?
= No, ci andiamo a piedi...
= E perché? Siete fortunati. Vedete quella è la fermata della metro, in cinque minuti vi porta proprio fino a Piazza...
= Preferiamo fare una passeggiata
= Altro che passeggiata, è una scarpinata vera e propria
= Così ne approfittiamo per visitare Roma
= Contenti voi. Allora andate dritti su questa salita, arrivati in cima procedete ancora rasentando gli edifici alla vostra sinistra; seguitate a farlo fino ad un semaforo; girate a destra, poi ancora a destra; quando non potete andare più avanti perché vi trovate davanti le mura della stazione centrale girate a sinistra, procedete fino al centro di un incrocio, lo superate di quattro o cinquecento metri e siete arrivati a Piazza...
= Grazie tante, molto gentile...
= Tutto chiaro?
= Sì, sì, arrivederci.
Ebbi la strana sensazione che tanto chiaro non doveva essere apparso a quei due: tra sinistra, destra e centro l'indicazione era stata un po' confusa, forse.
Come nel caso di altri settori.
E intanto il bus non arrivava.
Neppure il tempo di guardarmi intorno che due signori, piuttosto anziani, di non so quale nazionalità comunque non italiana, mi chiesero, usando alcuni verbi italiani all'infinito - tipo "noi volere andare..." - qualcosa che lì per lì non riuscii a capire e poi, non so come, compresi che stavano cercando le Scuderie del Quirinale per visitare una mostra del Caravaggio.
Mi è sembrato di rivedere la scena di quel vecchio film in cui Totò e Peppino De Filippo a Milano, dinanzi al Duomo, chiedevano alcune informazioni.
Questa però era un'indicazione troppo laboriosa per poterla far comprendere in breve tempo ai due miei coetanei extra-italiani. Ad ogni modo ci misi tutta la mia buona volontà e riuscii, credo, ad indirizzarli verso la direzione giusta non prima però di una quindicina di minuti.
Nel frattempo avevo notato che un altro signore con tanto di carta toponomastica in mano stava lì a poca distanza aspettando non so cosa.
Ci volle poco a capirlo: s'era messo in fila pazientemente per poi avvicinarsi a me e chiedermi, in un italiano stentato, quale strada doveva fare per andare a...
Per fortuna il luogo dove doveva recarsi era a poche centinaia di metri.
E ancora il bus tardava a venire.
Mi venne un dubbio: per caso i passanti mi stavano scambiando per un pizzardone – alias vigile
urbano in borghese e quindi addetto alla circolazione di uomini e mezzi?
Decisi di andare a rifugiarmi in un bar mentre frattanto il tempo correva. Quello sì ma il bus neppure a parlarne.
Finalmente, dopo un'ora, il bus arrivò, stracolmo di persone piuttosto imbufalite compreso quelle che erano in attesa alla mia stessa fermata.
Domandai all'autista se si era rotto qualche..ma lui, interrompendomi
= Da quer dì che me so' rotto, ma che ce voi fa'? Ce vo' pazienza...
E lui lo disse a me. Mah!

domenica 14 marzo 2010

SENZA ARTE NÉ PARTE

Questa frase l'ho letta da qualche parte oppure l'ho sentita dire da qualcuno, non ricordo bene, ad ogni modo credo venga così definita una persona che sa fare poco o niente di significativo se non possiede un titolo di studio o una formazione adeguati. Ad esempio non potrà mai fare l'autista, il barbiere, calzolaio, disegnatore, elettricista, idraulico, muratore e così via. Mi spiego meglio e cito un caso: se ha studiato al massimo fino alla terza elementare e non è riuscito ad imparare un qualsiasi mestiere a causa della sua forzata emigrazione da un'isola al continente onde evitare un qualsiasi coinvolgimento nell'ambiemte malavitoso, quale lavoro potrà mai fare per sbarcare il lunario?

Parlo di chi, nato nel 1900 e non avendo terra propria dalla quale ricavare il minimo necessario almeno per sopravvivere, poteva fare solo il bracciante-schiavo. Oppure emigrare in una qualsiasi grande città alla ricerca di più numerose occasioni per un qualsiasi lavoro sia pure di basso profilo.

Un velleitario tentativo di fare l'orologiaio finì nel nulla giacché non supportato da un adeguato apprendistato; poi un primo tentativo di venditore porta a porta di romanzi popolari a fascicoli settimanali; poi ancora un periodo di macchinista all'interno di palcoscenici teatrali per calare e far risalire fondali di scena tramite robuste corde e "a mano"; quindi "maschera", addetto cioè al controllo dei biglietti d'ingresso nei cinema; quindi breve ritorno alla vendita a domicilio di romanzi a puntate alternato a venditore, sempre a domicilio, di articoli di profumeria: acqua di colonia, borotalco, brillantina, creme da barba e non, profumi, rasoi, saponette ecc. Quest'ultima sua attività veniva da lui esercitata con un sistema particolare: vendeva questi prodotti a rate, nel senso cioè che chi acquistava non pagava subito l'importo dovuto ma aveva la facoltà di rateizzarlo settimanalmente a proprio piacimento. Giorno di pagamento e riscossione la domenica.

E così per anni, dal 1928 quando emigrò dalla Sicilia a Roma, al 1970 quando, rimpianto da tutti, lasciò Roma per altri lontanissimi lidi.

Questa nobile persona, non di lignaggio certo e neppure erede di chissà cosa, era mio padre.

La non eredità ha avuto il suo seguito dato che lui non ha ereditato nulla dai suoi avi; noi fratelli niente da lui e mio figlio altrettanto da me. Una "dinastia" senza possedimenti se non noi stessi, con i nostri difetti e con i nostri pregi.

Quando poteva ci conduceva, me e i miei fratelli, quando eravamo bambini, a prendere il sole e a respirare l'aria pura nei parchi pubblici vicino casa: Colle Oppio, Palatino, Piazza Vittorio, Villa Celimontana.

Purtroppo io, da vero scavezzacollo, fui l'unico di noi quattro fratelli a dargli una serie di dispiaceri che nascevano dalla mia irrequietezza e che poi andavano a finire inevitabilmente nella promessa di "legnate" mai mantenuta. Allorché combinavo qualcuna delle mie marachelle, lui faceva in tempo a salvarmi dalle giuste punizioni che voleva infliggermi mia madre, mi conduceva in camera da pranzo, chiudeva la porta e, seduto accanto a me, chiedeva i perché dei miei comportamenti carezzandomi i capelli. Con la cinta di pelle in mano che non ha mai adoperato, minacciato sì.

Stranamente sono stato l'unico che gli è stato accanto nelle sue molteplici attività: collaboratore a tempo pieno anche se in nero.

Nei miei alterni periodi di non lavoro lui si dava da fare per trovarmi qualche occupazione.

Nel 1953, quando mi ammalai, ultimata la guarigione, mi fece confezionare, pagato poi a rate, un bellissimo e caldo cappotto da un sarto, padre di un mio amico d'infanzia, che abitava nel nostro stesso fabbricato.

Sono sempre esistiti i "cocchi di mamma", evidentemente io ero il "cocco di papà".

Un ricordo particolare che mi è rimasto impresso, e che non riuscirò mai a dimenticare, fu quando, nel 1966, dieci anni dopo che mi ero sposato e avevo già mio figlio, ero a bordo di un tram nei dintorni della casa dov'ero nato e, attraverso i finestrini, lo vidi che arrancava sulla salita poco distante, con quella sua particolare andatura claudicante dovuta in gran parte al gran camminare di tutti quegli anni. Sempre a piedi dato che non sapeva andare in bicicletta, né in moto e non aveva mai preso la patente di guida. Mi commossi fin quasi alle lacrime.

Era sì una persona senza arte né parte, sapeva fare poco ma non ci ha fatto mai mancare il necessario e ha saputo fare benissimo il padre.



venerdì 12 marzo 2010

IL NUMERO

A me piace ogni numero dispari dall'uno in poi, all’infinito. Quello pari no! Perché? E chi lo sa? La verità è che tutti i numeri mi sono stati sempre un po’ antipatici, parlo di quelli studiati a scuola, logicamente.
I primi anni non è che andavo proprio tanto male…mi davano fastidio i problemi tipo “La mamma va dal fruttivendolo a comprare due chili di patate, un chilo di pomodori e mezzo chilo di cipolle; se ha pagato con…tot… monete da 50 e ha speso…tot…quanto le resta in borsetta?”… domandatelo a lei, mi dicevo. Oppure quell’altro “Ci sono due treni…uno parte da…a cento chilometri l’ora, l’altro parte da…a tot chilometri l’ora, quanto…?” ... informatevi alle ferrovie, no? Pensavo mi andasse in tilt il cervello. Ho avuto sin da allora una forma d’idiosincrasia per la matematica che ho mollato non appena ho potuto farlo. Tutto ciò è durato sin dalla frequentazione di scuole d’ogni ordine e grado, per oltre trent’anni.
Ricordo che anche al lavoro, quando capitava qualcosa che aveva a che fare con i numeri, specialmente con le frazioni, demandavo e ricorrevo sempre all’ausilio di qualcun altro.
Un giorno, improvvisamente, non ricordo certo la data esatta, tutto è cambiato.
Non che abbia improvvisamente cominciato a risolvere problemi algebrici o d’alta matematica ma ho sentito di nutrire per i numeri un certo affetto in considerazione dell’effetto che fanno su di me. Direi quasi terapeutico forse anche ossessivo.
In moltissime occasioni dovendo stare fermo per una certa situazione, il mio divertimento consiste nel fatto di contare e ricontare più volte le cose, gli oggetti o addirittura le persone che ho davanti gli occhi. Poi faccio le operazioni, solo quelle del periodo della prima infanzia, intendiamoci: addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione, punto e basta. Cito qualche esempio: in qualunque sala d’attesa ci sono ovviamente persone in attesa. Allora comincio a contare: quanti uomini?…quante donne?…quanti giovani?…quanti anziani?…In quest’ultima categoria risalta la maggioranza delle vedove sui vedovi, direi all’incirca, il 75% contro il 25%. Che pacchia per quest’ultimi! Poi passo ai lampadari e alle lampadine, al mobilio, ai ninnoli, ai quadri ecc., senza tralasciare il conteggio di scalini in presenza di eventuali scale per accedere a quei luoghi. Camminando in strada conto quante macchine italiane rispetto a quelle straniere e di queste quante di una certa marca e quante di un’altra, sia circolanti che parcheggiate. Se sto aspettando un bus di linea ad una fermata, allora enumero quanti bus della linea che m’interessa passano nel senso di marcia opposto al mio e noto sempre che quello che serve a me è in netta minoranza, direi uno su tre e quindi in ritardo. Quando controllo le cifre elencate in un qualsiasi scontrino del mercato, del supermercato o di un negozio presso i quali ho proceduto all’acquisto di più cose, mi diverto a tirare le somme con vari metodi, senza l’ausilio di una calcolatrice, a gruppi di due, di tre e via dicendo. Capita anche che il mio totale non combaci con quello dello scontrino - naturalmente poi mi rendo conto che la colpa è mia - e allora rifaccio l’operazione anche due o tre volte, così per diletto, e mi ci faccio una risata sopra.
Devo però confessare che ho un mio numero preferito anzi il NUMERO preferito che è il 7. Non so spiegarne il motivo ma quando sono dietro a compiere alcune azioni tipo, ad esempio, l’uso quotidiano per esercizio fisico della cyclette, ogni 7 pedalate eseguo 7 movimenti con le dita delle mani per sgranchirle meglio.
Confessione per confessione ho una profonda avversione per il diciassette che,personalmente, non ritengo sia un numero ma una iattura tipo il passare sotto una scala a pioli (cambiare il percorso), lasciare che un gatto nero ti attraversi la strada (in questo caso tornare indietro – il bello è che ne ho uno in famiglia), incrociare il passaggio di un’ambulanza o di un carro funebre (fare gli opportuni gesti scaramantici), anticipare la sera prima il cambio della data del giorno seguente nel calendario sulla scrivania (attendere almeno le 7 a.m. del giorno successivo).
Mi capita a volte quando leggo un giornale, un libro o una rivista di dover sospendere la lettura per un motivo qualsiasi ma se mi trovo davanti alla pagina diciassette faccio del tutto per leggere ancora almeno altre quattro o cinque pagine e così pure davanti alle pagine successive quando il risultato della somma, della differenza, del prodotto - questo è un po’ difficile - o del quoziente delle due o più cifre della pagina della pubblicazione che sto leggendo diventa diciassette o quando ancora, se si tratta di un libro che sto leggendo, arrivo alla pagina 100 diciassette, 200 diciassette e così seguitando per quelle che seguono.
Al sorgere dell’alba del giorno venerdì diciassette di ogni mese di ciascun anno io EMIGRO, se non con il corpo almeno con la mente, tra gli amici aborigeni dell’Amazzonia dove, spero, non è vigente il calendario gregoriano entrato in vigore il 4/10/1582 con la riforma di Gregorio XIII (così parlò Zanichelli editando il vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli).
Tutte idiozie, stupide superstizioni che lasciano il tempo che trovano e che non hanno alcun concreto riscontro nella realtà, ma vallo a dire ad un capoccione come me.
E poi io mi diverto ad “operare”!
Affronto tutto questo in modo paranoico? Sono completamente d’accordo. Ho bisogno di andare a sdraiarmi sul divano di un analista, di uno psicologo, di uno psichiatra? Ci vado subito! Però mi occorre l’indirizzo. Ad esempio: via tal dei tali numero - attenzione però - deve essere al civico NUMERO 7 meglio ancora se lo studio si trova all’interno NUMERO 7.
Se vado all’indirizzo fornitomi e accanto al portone dove devo entrare c’è il diciassette regolarmente me ne torno indietro.
E tanti cari saluti.

martedì 9 marzo 2010

LA COPPIA

Erano veramente la coppia più bella del mondo. Se non altro, la meglio assortita.
Lei, più alta, magra come un chiodo, capelli bianchi, occhi cerulei, viso segaligno, età intorno agli 85, lui invece molto più basso, piuttosto grassottello, capelli assenti, occhi chiari, viso rubizzo, età vicino ai 90. Lei, bergamasca con un accento talmente tosto che facevi fatica a comprenderla se parlava svelta, con la protesi dentaria che le ballava frequentemente - ma se ne infischiava - e per di più sorda al 99,99% tanto che se volevi dialogare con lei correvi il rischio di perdere la voce dovendo urlare per essere ascoltato. Lui, ciociaro, invece facevi fatica a sentirlo talmente basso era il tono che usava quando ci si chiacchierava insieme. (Ma fra di loro come facevano a capirsi? Probabilmente a gesti o scrivendosi bigliettini). Lei una specie di carabiniere in pensione, arcigna, austera, severa e con lo sguardo continuamente rivolto in giro verso le altre persone: forse, poiché non sentiva cosa dicevano gli altri, penso leggesse le loro labbra per capire qualcosa e per, eventualmente, partecipare alla conversazione, con quale risultato non è dato sapere. Lui, un bonaccione sempre col sorriso sulle labbra, ben disposto verso tutti e attaccato a lei come un bimbo al braccio della mamma. Lei, Elena, vestita sempre con un lungo vestito scuro ed un colletto bianco, tipo collegio, lui, Beniamino, sia d’inverno che d’estate, agghindato con un completo chiaro, pesante o leggero secondo la stagione, camicia, cravatta e cappello borsalino in testa di colore in sintonia con l’abito che indossava di volta in volta. Chi era più assortito di loro? E’ proprio vero gli opposti si attraggono!
Entrambi abitavano vicino al circolo per anziani che frequentavamo e dove ci eravamo conosciuti. I primi tempi erano trascorsi nella reciproca indifferenza ma poi, col passare dei giorni, diventammo amici anche se tra me e loro c’erano parecchi anni di differenza. M’ispiravano simpatia, non so spiegarne i motivi ma credo che anche loro nutrissero per me lo stesso sentimento. Ne ebbi una prova concreta cinque o sei mesi dopo.
Ogni pomeriggio alle 16:00 in punto, pioggia o sole, freddo o caldo, loro si presentavano al circolo e si sedevano occupando sempre lo stesso posto. Gli altri frequentatori avevano preso l’abitudine di lasciare libere le loro due poltroncine. Non prendevano mai loro l’iniziativa di fare quattro chiacchiere con chicchessia, aspettavano sempre che fossero gli altri ad interpellarli. Elena trascorreva il tempo sferruzzando in continuazione cose di lana: sciarpe, calze e così via mentre Beniamino si faceva sempre qualche partitella a carte: briscola, scopa o scopone. Anche se nessuno gli chiedeva se voleva giocare lui si autoinvitava. Era un disastro per i compagni nel gioco, un vero dono per gli avversari. Ma sembrava che ci provasse gusto a commettere errori perché quando gli altri, incavolati, lo rimproveravano o addirittura lo insultavano lui, calmo, sereno e pacioso se la rideva seraficamente come se le “male” parole gli scivolassero addosso.
Comunque sia Elena che Beniamino trascorrevano tutti i giorni tre ore precise lì nel circolo infischiandosene di tutto e di tutti: alle 19.00 in punto di tutte le sere sussurravano “buona serata” e se ne tornavano a casa: passetto passetto, braccetto braccetto.
Un giorno Elena mi fece cenno che mi voleva parlare. Io che ero seduto poco distante intento con altri tre amici a farmi una partita a tressette, le feci cenno di aspettare un attimo, poi dopo poco mi alzai, stavo per cedere il mio posto a Beniamino ma per miracolo evitai di venire sparato dagli altri tre e quindi, anziché col morto, continuarono la partita con un altro seduto lì vicino al momento nullafacente. Per me fu un sollievo perché non sono mai stato un appassionato del gioco delle carte e pertanto fui ben contento di andare a sedermi accanto ad Elena curioso di sapere che cosa doveva dirmi. A stento riuscii a capire che tra lei e Beniamino c’era qualcosa che non stava andando troppo bene. Le dissi che ero dispiaciuto per questo ma la pregai di non coinvolgermi in faccende personali e private confessandole che non ero tagliato per dare aiuto e conforto in situazioni del genere. Lei testardamente insistette e mi mise al corrente di tutto. Mi disse che non erano sposati, che convivevano soltanto da parecchi anni – platonicamente - perché, mi disse testualmente, lui era “troppo vecchio per lei”. Io lì per lì rimasi un po’ sconcertato, tentai di farfugliare qualcosa ma Elena, imperterrita, proseguì dicendomi che dopo tanto tempo s’erano fatti vivi i figli di Beniamino che lo stavano incalzando per costringerlo a ritornare con loro nel loro paese. Le conseguenze per Elena sarebbero state disastrose perché doveva lasciare la casa dove attualmente abitava in quanto la proprietà era di Beniamino ma ancora per poco dato che i figli l’avevano messa in vendita. Lei quindi dove sarebbe andata a finire? Le era rimasta una sola sorella, più grande di lei, che viveva su nel nord anch’essa sola e per di più gravemente malata. Non sapevo proprio cosa dirle. L’unico consiglio che le diedi fu quello di provare a rivolgersi ad alcuni uffici comunali competenti e la indirizzai da un funzionario che conoscevo con il quale avevo stretto un’ottima amicizia qualche tempo prima.
Per un po’ di giorni Elena e Beniamino non si fecero più vedere. Poi, ricordo era di sabato, alle sedici in punto venne solo lei che si rivolse subito a me, chissà, forse ero diventato il suo unico punto d’appoggio. Mi disse che Beniamino era tornato al suo paese con uno dei figli; che le avevano concesso di stare in quella casa ancora due o tre giorni ma che poi l’avrebbe dovuta lasciare. Aggiunse che era riuscita, grazie a quel funzionario al quale l’avevo indirizzata, ad ottenere una sistemazione in una casa di riposo comunale. I suoi ringraziamenti e i suoi saluti mi commossero profondamente ma mi assicurò che si sarebbe fatta rivedere tra non molto.
Così avvenne dopo una ventina di giorni. Entrò in quello che era stato anche il suo circolo, da un sacchetto di plastica tirò fuori un maglioncino di lana piuttosto pesante, senza maniche, collo a V, di colore blu, esattamente della mia misura e che, dopo circa trenta anni, tuttora conservo ed indosso, d’inverno è ovvio. La ringraziai e, con le lacrime agli occhi, davanti a tanti altri, ci abbracciammo affettuosamente. Non ci dicemmo nulla ma entrambi sapevamo che non ci saremmo più rivisti.
E così è stato.

sabato 6 marzo 2010

EPPUR CI VUOLE BENE, TANTO BENE

Il 29 settembre 2056 si è verificato un fatto strabiliante, un avvenimento fuori ma talmente fuori dall'ordinario che ha lasciato tutto il Paese a bocca aperta.
Esclusi gli extracomunitari, cinquanta milioni di cittadini e forse anche di più non riescono ancora a chiuderla.
Il “Signore degli Appelli” Salvo Bertuccioni, in occasione del suo centoventesimo compleanno, è intervenuto alla nota trasmissione televisiva “Finestra a Finestra” condotta dall’anchorwoman Blonde Mosca sull’unica rete pubblica “Rai-ter”, dono del generoso “Signore” che ne ha concesso l’uso e il consumo gratuito a tutti coloro che sono stati selezionati tra i vincitori del quiz “Balle Italia”, ma soltanto per un’ora al giorno essendo le altre 23 destinate alla pubblicità.
Dato che la gentile Mosca ha lungamente insistito EGLI ha concesso alla stessa “Rai-ter”, in esclusiva, di replicare la trasmissione tutti i giorni dopo gli orari della sua colazione, del suo pranzo e della sua cena, sempre gratuitamente in considerazione del fatto che il 157% dei telespettatori e radioascoltatori - centocinquantasette per cento come dicono i sondaggi - ne hanno fatto esplicita richiesta.
“Il popolo lo vuole” così ha commentato il “Signore degli Appelli”.
EGLI ha illustrato il suo programma di governo, passato, presente e futuro, in soli tre punti:
= 1°) più fossi per tutti;
= 2°) più cessi per tutti;
= 3°) meno tosse per tutti.
Alla domanda della conduttrice Mosca se poteva chiedergli che cosa ne pensava di….
-EGLI l’ha interrotta affermando categoricamente “sono tutte bugie, il popolo mi ama!”.
La conduttrice gli ha chiesto se avrebbe potuto eventualmente smentire…
-EGLI l’ha ancora interrotta affermando energicamente “sono tutte falsità, il popolo mi crede!”.
Infine la Mosca lo ha informato che la trasmissione stava per terminare e...
-EGLI l’ha nuovamente interrotta affermando risolutamente “sono tutte menzogne, il popolo mi segue!”.
Al momento del commiato ha voluto aggiungere: ”Lei è una gran bella donna. È occupata questa sera? Sa, mia moglie Armonica è impegnata alla stesura di alcuni articoli per il quotidiano di un suo amico un po’ mancino, che ne dice? Alt, dimenticavo: l'anno prossimo in occasione del mio 121° compleanno, salvo legittimo impedimento, verrò ancora a trovarla, contenta?”
Purtroppo a questo punto la trasmissione si è interrotta causa motivi facilmente intuibili.
Peccato. Resta comunque il fatto che l’avvenimento è stato veramente eccezionale tanto da far restare tutti sempre a bocca aperta.

mercoledì 3 marzo 2010

PENSANDOCI BENE

Mi sono stati suggeriti diversi spunti di riflessione che presenta un libro edito da Garzanti dal titolo "MA IO CHI SONO? (ed eventualmente, quanti sono?)" il cui autore è Richard David Precht (Solingen, 1964), filosofo, giornalista e scrittore. Per me li ritengo molto utili ed interessanti.

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La capacità di imparare cose nuove e di godersi quello che si apprende è il segreto di una vita piena.

Apprendere senza godercela ci rende tristi, godercela senza apprendere ci rincretinisce.

Il cervello umano condivide con le scimmie istinti e comportamenti come la guerra e l'aggressione,

l'impulsività, il senso della famiglia e quello sociale. Il 98,4% del DNA umano è uguale a quello degli scimpanzé.

Amigdala: centro cerebrale dell'angoscia e della paura, piacere e frustazione – Volti gentili e sorridenti provocano forti reazioni nell'amigdala sinistra, generando buon umore e voglia di fare; volti oscuri e minacciosi stimolano l'amigdala destra e suscitano paura e svogliatezza. Il sorriso, lo sguardo raggiante dell'altro sono la ricompensa quando si è fatto un piacere o un regalo e generano buon umore.

Un giorno la biologia sarà in grado di svelare tutti gli enigmi dello spirito (Freud) – cioé: rimpiazzerà la psicologia.

Inconscio – Percezioni inconsce. La maggior parte di quello che succede nel nostro cervello succede inconsciamente – esperienze vissute nel grembo materno e nei primi tre anni di vita – comportamenti automatizzati – 2/3 della nostra personalità si formano così, senza lasciarci modo, più tardi, di ricordarcene o di riflettere sulle condizioni precise in cui abbiamo vissuto queste esperienze. L'inconscio controlla il nostro conscio, molto più di quanto il conscio possa controllare

l'inconscio.

L'Uomo non è libero. Egli è in primo luogo un prodotto delle sue predisposizioni, delle sue esperienze e della sua educazione, e in secondo luogo di un inconscio oscuro. Il nostro intelletto può essere paragonato ad una équipe di esperti al servizio del sistema limbico che dirige il nostro comportamento. È solo il sistema limbico a decidere cosa, alla fine, facciamo davvero, ovvero solo ed esclusivamente ciò che è considerato "emotivamente accettabile". Sono i sentimenti a mostrare alla ragione la direzione da seguire. Senza stimoli emotivi il pensiero non si muove.

Memoria è qualcosa come la nostra stessa identità – Senza la memoria non solo non avremmo alcuna biografia, non avremmo nemmeno una vita, o perlomeno nessuna vita consapevole. Comprendere significa collegare una cosa a un'altra che già conosciamo.

Non essere amati è grave, non avere nessuno da amare è ancora peggio. Amare un'altra persona o dedicare molta attenzione a chi ci sta vicino costituisce, indirettamente, un'ottima possibilità di fare del bene a se stessi. Essere disponibili a immedesimarsi negli altri e prendersi cura di loro permette di uscire dai propri limiti.

L'ordine della natura viene elaborato nel cervello umano. L'intelletto ordina il mondo in base a determinate strutture insite nell'intelletto stesso. - L'intelletto umano struttura il mondo (Kant).

Intelligent design? Qual'è l'alto scopo che si prefiggono i merli quando imitano le suonerie dei cellulari? Come si spiega il fatto che gli uomini si innamorino di un partner del loro stesso sesso?

L'Uomo è l'unico animale capace di occuparsi anche di "ciò che non c'è". Altri animali non sono in grado né di pensare a ciò che non è più, né a ciò che non è ancora.

Proprietà – Allargamento dell'Io – Tendenza ad allargarsi e ad espandersi mediante le cose possedute – Gli uomini si realizzano acquisendo dei beni da possedere – L'acquisizione di cose e,

attraverso esse, di immagini, è una delle principali fonti di felicità. L'acquisizione rende felice (anche se solo per un breve periodo), il possesso no. Se determinate esigenze sono soddisfatte, ne emergono ben presto delle nuove, mentre ci si abitua quasi subito a ciò che si ha, fino a darlo per scontato.

I cinque fattori della felicità:

ATTIVITA' – La stasi intellettuale provoca cattivo umore. Gli interessi aumentano la gioia di vivere.

VITA SOCIALE – La felicità più duratura scaturisce dai rapporti sociali.

CONCENTRAZIONE – Approfondire gli stati di coscienza, vivere totalmente le esperienze quotidiane.

ASPETTATIVE REALISTICHE – Non esigere né troppo (stress) né troppo poco (apatia).

PENSIERI POSITIVI – Cogliere sempre il lato positivo delle situazioni.

Nè il benessere, né il denaro e neppure l'età, il sesso, l'aspetto, l'intelligenza o la cultura sono decisivi per la nostra felicità. Più importanti sono la sessualità, i figli, gli amici, il cibo e lo sport.

L'aspetto più determinante è il rapporto con gli altri.

Non si tratta di "trovare un senso nel mondo" ma di "dare un senso al proprio mondo":